1. La esibita, e sempre più acuta, inintelligenza dell’intelligencija nei confronti dell’azione di Benedetto XVI, ha buona materia su cui esercitarsi in questi giorni. Ma debbo partire partire da più lontano. Osservavo, già nel settembre 2006 (cfr. http://www.chiesa.espressonline.it/ 22 settembre ), come vi fosse un taglio inconfondibile nella importante lezione di Benedetto XVI nell’Aula magna dell’Università di Regensburg: la decisione di non evitare la pars critica entro un disegno dialogico.
E sottolineavo come la profonda visione strategica di papa Benedetto sembrasse operare ad integrazione del magistero di Giovanni Paolo II, proprio usando quel discernimento sui temi della verità e della ragione che Joseph Ratzinger cardinale aveva esercitato, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sui disastri teologici maturati entro la Chiesa postconciliare. Un’opera difficile, poiché derive e squilibri nell’intelletto cattolico avevano indotto errori antagonistici, ad esempio nella estesa, differenziata, area delle reazioni “tradizionalistiche”.Che il discernimento e la sanzione dell’eccesso dovesse essere inteso come leale, fattiva, premessa all’incontro è risultato dagli atti successivi di Benedetto. Poiché la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano è il vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione - “realizzazione” che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato - gli atti di pace iniziano necessariamente dalle aree di sofferente, anche se troppo esibita, ortodossia “tradizionale” che si richiamano alla storia preconciliare. Solo un “uso politico del Concilio”, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, secoli di vitale, autentica Tradizione. La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire, in Benedetto, come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazione soggettivistica, che operano non solo nelle “sperimentazioni” avanzate, ma anche nella pastorale corrente. La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” (ecclesiale) del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un più ampio intervento medicinalis per la chiesa universale.
Le stesse rare, ma violente, reazioni negative al motu proprio Summorum pontificum confermavano senza volerlo l’urgenza dell’azione “medicinale” di papa Benedetto. Ho sottolineato in più occasioni che, come l’attenzione alla integrità della storia liturgica cattolica, anche la nuova apertura alla fraternitas San Pio X è ordinata a ricondurre la vita cattolica alla sua essenziale natura di complexio. La nuova dignità delle comunità “tradizionali” nella Chiesa cattolica di oggi opera da correttivo, se non da risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, prima ancora e più gravemente, ideologica consumata nel recente Novecento (contro la stessa Costituzione Sacrosanctum Concilium) con la cancellazione di fatto dello spirito liturgico, quasi lasciando intendere ch’esso fosse diventato “inattuale”.
Si tratta dunque, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare opportune et importune l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassano soglie estreme di tollerabilità. Da ciò, ogni volta, degli scandala, previsti e non previsti, ma opportuni nel disegno di Dio. Che si tratti dell’intenso confronto con l’Islam, o della dedizione al dialogo con gli ebrei (una riconciliazione, una Versöhnung, grande tema della teologia tedesca, nella chiarezza del peculiare compimento in Cristo), o della cura per l’unità della Chiesa nell’unità della tradizione vivente; o che gli esprima ad extra una critica alle politiche preventive dell’AIDS in quanto esse colpiscono, come effetto sottovalutato o imprevisto, estesamente e profondamente la cultura della sessualità procreativa.
In effetti, i contingenti scandala e il loro sofferto superamento portano a coscienza, entro la Chiesa e tra Chiesa e istituzioni internazionali, proprio le soglie critiche che il cammino di Pietro, e la sollecitudine di Roma, attraversano carismaticamente.
2. “Condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia” (non un dio qualsiasi), priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro, dunque. Questa la missio e questo l’orizzonte, ritornanti anche nell’intervista “concessa ai giornalisti durante il volo verso l’Africa” (17 marzo u.s.). Il Papa ha detto, solamente: "Non si può superare questo problema dell'AIDS solo con il soldi, che sono necessari, ma se non c'è l'anima che sa applicarli, non aiutano; non si può superare [il problema dell'AIDS ] con la distribuzione dei preservativi: al contrario, il rischio è aumentare il problema". Siano di fronte, rigorosamente parlando, ad un argomento contro le politiche e le antropologie del preservativo, non ad una ulteriore argomentazione del divieto del profilattico.
Il dato dell’intrinsece malum delle pratiche contraccettive ovviamente resta, nel quadro di discussioni teologico-morali e di duttili prassi pastorali (non dico “misericordiose”, perché non vi è maggior equivoco che considerare “misericordiosa” solo la remissione della pena; misericordioso è anzitutto il dono della Legge di Dio). Credo si possa dire che 1) tutta una serie di stati di necessità (per i quali sarà utile la ripresa in teologia morale, e nella formazione del confessore, del metodo casistico) operano come scusanti o scriminanti caso per caso, e che, in foro interno, i confessori si comportano lecitamente di conseguenza; 2) la coscienza bene ordinata assume, comunque, a proprio carico la illiceità di una condotta e la condizione “attuale” di peccato (ciò che ha rilievo, anzitutto, è che la coscienza sappia di non poter rivendicare alcun "diritto alla trasgressione" di fronte a Dio, ma che si deve appellare alla Sua misericordia).
La preoccupazione del Papa in quella breve frase non è, comunque, teologico-morale ma antropologica (dunque di diritto naturale). Si tratta di ricordare opportune et importune che la diffusione dei metodi anticoncezionali non “libera”, se non nell’immediato e superficialmente, la sessualità umana, e nel tempo la colpisce a morte in quanto umana. Annientare la stessa eventualità, quindi la corrispondente responsabilità, procreativa in una cultura umana è favorire su larga scala la “neutralizzazione” dell’accoppiamento, fuori da un quadro di valore, contro la forma - profonda e costante nelle società - della sessualità regolata da un Nomos. Né si tratta solo di un esercizio regolato della sessualità da parte degli individui, ma un Ordine che, non secondariamente, porta con sé un primato del pudore e, spesso, l’eccellenza (in condizioni elettive) della verginità e castità. Promiscuità (anche programmatica), assenza di regole, casualità e banalità dell'atto sessuale, come l’allontanamento o l’eccezionalità della procreazione, portati a sistema investono invece la coppia umana e il nodo paternità/maternità nella loro essenza.
Certo, nel caso della diffusione dell’AIDS, siamo in un vero e proprio stato di necessità. Non per questo va da sé, cioè senza critica, un intervento grossier di “riduzione del danno” su scala continentale. Vi è un’analogia col modo sbrigativo e cinico (“almeno non prendono malattie”, quasi fosse problema più importante per l’uomo) con cui su scala minore in Europa, per le strade e magari nelle scuole, si mettono i profilattici a disposizione e incentivo dei fruitori del sesso occasionale, vero servo della pulsione. In ciò risiede, su piccola e grande scala, il “rischio di aumentare il problema”!
Con intensificazione e assuefazione alla sessualità senza criterio aumentano a dismisura, anche indipendentemente dai margini di insicurezza del mezzo profilattico, le occasioni del cammino dell'infezione da una mucosa potenzialmente infestante ad altre. Mentre l’ideale copertura strumentale di un’intera società dai rischi di infezione da HIV separerebbe, in essa, la sessualità dalla fecondazione, lasciando quest’ultima per intero alle tecniche procreative assistite. Questa sì una situazione di surroga e dominio da parte della Techne, non la protezione di un essere umano da derive eutanasiche.
(Su Repubblica del 19 marzo Adriano Sofri osserva che l’argomento della indesiderabilità morale-culturale di un uso generalizzato del profilattico dovrebbe implicare anche la non desiderabilità di un vaccino anti-AIDS, perché l’immunizzazione condurrebbe allo stesso effetto. Ma non è così. L’immunità ridefinisce una normalità; l’emergenza vita/morte non preme più sulle istituzioni che regolano la sessualità; dal praticabile/impraticabile (senza rischio) si ritorna al lecito/non lecito. Può essere, allora, ridotto di molto o abbandonato l’uso dei profilattici per una opzione favorevole alla procreazione; si esce dalla loro dipendenza, direi dalla loro sovranità anche simbolica).
L'opposizione classica alla propaganda anticoncezionale si è attenuata nel tempo solo perché appare un "minor male" di fronte all'imbarbarimento (alla ri-animalizzazione) dell’intimità e della sessualità. Ma oggi la critica di un Papa alla generalizzazione dell'uso del preservativo perché un continente cessi disturbarci con i suoi problemi, manifesta con giusta traumaticità (secondo il metodo di Benedetto XVI) la integrale sollecitudine della Chiesa per l’Africa, e per ogni uomo. L’intelligencija che giudica il Papa in questi giorni non ha più orizzonte del funzionario degli organismi internazionali addetto a compilare le bolle di spedizione delle partite di preservativi. Eppure questa è l'antropologia implicita di chi, propagandando profilattici, si preoccupa della salute (com’è doveroso) di una popolazione – ma solo demograficamente intesa e nel disinteresse per la sua qualità e peculiarità di cultura umana, per la sua concezione della vita, della relazione e della generazione, che certamente appartengono, e non solo nelle culture africane, all'ordine del Sacro. In Europa, ripetiamolo per l’ennesima volta per vedere se entra nelle teste, non vi è la preoccupazione che l’uomo contemporaneo smarrisca il significato trascendente del corpo proprio a vantaggio della cura di sé come mera sussistenza/sopravvivenza di una macchina biologica efficiente e desiderante (desiderante il niente, nel vuoto di significati). Il Papa, la visione cristiana dell'uomo integrale, si oppongono alla automatizzazione di questa “cura” (care) passiva-preventiva per i corpi. Essa può valere solo caso per caso nella responsabile valutazione di chi ne ha autorità; eccezione dunque, di fronte ad assoluta necessità; non regola né tantomeno visione dell'uomo e del suo bene.
La cura cristiana integrale è altra: "rinnovare l'uomo interiormente, (...) dare forza spirituale umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell'altro [che la regolare protezione contraccettiva può permettersi di ignorare], e [la indiscutibile] capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente [da parte della Chiesa, e non guidare ben da lontano grossolane politiche sanitarie] nelle situazioni di prova".
3. La sprungbereite Feindseligkeit, quel piacere di aggredire, che attende solo l’occasione per esprimersi, e che il Papa coglie, senza complimenti, nei suoi critici, ha di nuovo tradito molti in questi giorni, ed anche Adriano Prosperi (Il tabù del Pontefice, in La Repubblica, 18 marzo u.s. che tratta anche della bimba brasiliana stuprata dal patrigno e della scomunica). Supponendo, evidentemente, che alcune considerazioni inconsuetamente moderate del suo articolo non avessero abbastanza sale per i lettori, Prosperi deve terminare il pezzo con il topos della “durezza disumana della condanna ecclesiastica”, quando egli sa benissimo (non i suoi lettori, magari – ma tanto peggio per la sua responsabilità di studioso) quale sia il senso e la ratio di una scomunica. Questo topos è preceduto da una domanda: “Cosa accadrà per chi usa il preservativo”, che suona molto “gotica”; Prosperi vuole prospettarci qualche scenario da auto da Fé? Lo studioso conosce come conosco io la prassi della pena canonica e il legittimo e costante uso dell’epicheia, nonché la vitale dialettica cattolica di peccato, remissione, grazia. Inoltre, poiché accosta uso di un profilattico (ordinato, nel caso che discutiamo, ad impedire la trasmissione del virus) all’aborto (il caso brasiliano), dovrebbe sapere che si tratta di atti di diversissima gravità e diversamente sanzionati.
Adriano Sofri (su Repubblica di oggi 19 marzo), che ho già citato, non sa cosa sia scomunica; pensa che “scomunica misericordiosa” sia un ossimoro. Ma, con la stessa impazienza di “governi e istituzioni internazionali”, vede “offesa la ragionevolezza e sabotata la fatica di tanti professionisti e volontari”, il che è semplicemente falso, come spiegato. Ma Sofri non leggerà opinioni diversa dalla sua; ritiene di sapere già perché e come molti commenteranno favorevolmente gli acta di Benedetto XVI. Non ha dubbi ad associare, sapendosi in buona compagnia, la “durezza della Chiesa, che a volte sembra ottusità, a volte cattiveria”, con una “malattia inguaribile della società italiana”, un’ombra sulla nostra storia. Non è migliore il suo giudizio per il caso Welby, o per i pagani e sanfedisti che “confiscano i corpi dei sudditi”, e intende uomini e donne che hanno formulato e stanno difendendo in Parlamento la legge sul fine vita. Spiace che sotto tanta enfasi non vi sia quasi nulla.
Ma anche la conclusione “femminista” dell’articolo di Prosperi va veramente a vuoto. Secondo lui, l’anima della bambina brasiliana o della donna camerunese sarebbero per la Chiesa, per di più in quanto donne, meno importanti di quella di un vescovo negazionista. Sia la censura canonica latae sententiae (da cui non è stata colpita, ovviamente, la piccola Carmen; eventualmente sua madre, certamente i medici in quanto coscienti e contumaci) da parte della Chiesa, sia la chiara indicazione di una condizione di peccato, sono al contrario medicina, nel primo caso, e guida del fòro della coscienza, nel secondo, proprio e solo in vista della salvezza delle anime. Per di più Benedetto XVI non ha parlato degli individui, destinatari oggi di cura e amore, quanto degli effetti aggregati delle politiche del preservativo. Possibile che una persona intelligente e dotta, che conosce la tradizione dottrinale e spirituale cristiana, creda veramente (alla stregua del laico più sprovveduto e di qualche teologo d’accatto) che si provveda alla salus animarum e all’integrità dell’uomo nascondendo o derubricando il peccato? Come se qualcuno volesse salvarci dai rischi mortali della strada togliendo i cartelli di incrocio pericoloso e annullando le fattispecie di reato previste dal Codice! Ed è plausibile che intellettuali della mia generazione, educati austeramente come ancora avveniva nell’Italia postbellica, possano allinearsi al piagnucolio postmoderno sulla “cattiveria”, la “inumanità” di un’autorità che tangibilmente ama, protegge e sanziona, e sanziona perché ama? Un’autorità che ripete questo senza sosta, come si può verificare nella maggior parte dei testi, spesso bellissimi, di Benedetto XVI, e è vissuta come tale dagli africani che la accolgono in questi giorni.
(Quanto poi al tic Williamson - il senso della scomunica ai vescovi lefebvriani e della sua remissione sono offerti alla riflessione di chi voglia riflettere - valga quanto ho scritto altrove [ www.chiesa.espressoline.it 17 marzo 2009] sulla automatica, e strumentale, costruzione del capro espiatorio).
La Chiesa, che Rémi Brague ha detto profondamente (in occasione del VI Forum del Progetto Culturale della CEI, nel 2004) essere la sola capace di conservare oggi alla ragione gli orizzonti del bene, del vero e dell’essere, ha il compito di chiarire l’errore radicale di chi confonde il Bene col (problematico) “star bene” della nostra animalitas.
Gli organismi internazionali facciano in Africa ciò che debbono, peraltro nella quotidiana contiguità e integrazione con l’azione della Chiesa; ma non usino il dramma africano per fare delle culture dell’Africa una imitazione dell’Occidente invertebrato e della sua anomia (non di tutto l’Occidente, però, poiché per sua fortuna e per disegno divino, la sofriana “ombra dell’eccezione cattolica” non lo abbandona). Proseguiva Benedetto XVI rispondendo a Philippe Visseyrias di France2: “La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità (…), e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità (..) ad essere con i sofferenti”. In una simile integrità assiologica, non nella burocrazia del preservativo, può essere scusata o scriminata l’adozione di una tecnica impeditiva, imposta (e solo in quanto imposta) da uno stato di necessità.
di Pietro De Marco
20 Marzo 2009
link:
http://www.loccidentale.it/articolo/il+piacere+di+aggredire+il+papa+senza+capirne+il+messaggio.0068240
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